Italo Calvino, L’avventura di un bandito, in Gli amori difficili, Mondatori, Milano, 2002
L’importante era non farsi arrestare subito. Gim s’appiattì nel
vano d’una porta, i poliziotti sembrava corressero diritto, invece a
un tratto sentì i loro passi tornare indietro, voltare per il vicolo.
Saltò via di corsa, a balzi leggeri.
– Fermati o spariamo, Gim!
«
Ma và, bravo spariamo!» pensava lui, e già era fuori tiro
a gran spinte di piede sull’orlo dei gradini acciottolati, giù per
le sbilenche vie della città vecchia. Sopra la fontana saltò la
ringhiera della rampa, poi fu sotto l’arcata che ingigantiva il battere
dei passi.
Tutto il giro che gli veniva in mente era da scartare: non Lola, non Nilde,
non Renée. Tra poco quelli sarebbero stati dappertutto, a bussare alle
porte. Era una notte tenera, con nuvole così chiare che sarebbero andate
bene anche di giorno, sopra gli archi campati alti sui vicoli.
A sboccare nelle vie larghe della città nuova, Mario Albanesi detto
Gim Bolero frenò un po’ il suo abbrivio, rincalzò dietro
le orecchie le filze di capelli che gli erano cadute sulle tempie. Non si sentiva
un passo. Traversò deciso e discreto, arrivò al portone dell’Armanda,
salì. A quest’ora certo non aveva più nessuno e dormiva;
Gim bussò con forza.
–
Chi c’è? – fece dopo un po’ una stizzosa voce d’uomo. – A
quest’ora si dorme… – Era Lilin.
–
Apri un momento, Armanda, sono io, sono Gim, – fa lui, non forte, ma
deciso.
Armanda si rivolta nel letto: – Uh, Gim, bello, adesso ti apro, uh, c’è Gim –.
S’attacca al tirante a capo del letto che fa aprire la porta, e tira.
La porta scatta, docile; Gim va per il corridoio, a mani in tasca, entra in
camera. Nel grande letto d’Armanda il corpo di lei, dagli alti rilievi
del lenzuolo, sembra lo occupi tutto. Sul guanciale, la faccia senza trucco,
sotto la frangetta nera, si lascia andare in borse e rughe. Più in là,
come in una grinza della coperta a un lato del letto, c’è coricato
suo marito Lilin, e sembra voglia sprofondare nel guanciale con la sua piccola
faccia bluastra per riacchiappare il sonno interrotto.
Lilin deve aspettare che l’ultimo cliente se ne sia andato per potersi
mettere a letto e smaltire il sonno di cui si carica nelle sue pigre giornate.
…
–
E allora, Gim! – Fa Armanda strabuzzando gli occhi.
Lui ha già trovato delle sigarette sul comò e accende.
– Ho bisogno di passar la notte qui, stanotte.
E già si toglie la giacca, si sfila la cravatta.
–
Si, Gim vieni a letto. Tu va sul sofà, Lilin, su Lilin bello, togliti,
lascia che si corichi Gim.
Lilin resta un po’ lì come una pietra, poi si solleva, emettendo
un lamento senza parole articolate, scende dal letto, prende il suo cuscino,
una coperta, il tabacco dal comodino, le cartine, i fiammiferi, il posacenere. – Và,
Lilin bello, và –. Si avvia piccolo e curvo sotto quel carico
verso il sofà del corridoio.
Gim si spoglia fumando, appende i suoi calzoni ben piegati, sistema la giacca
su una sedia vicino al capezzale, porta le sigarette dal cassettone al comodino,
i fiammiferi, un posacenere, entra in letto. Armanda spegne l’abat-jour
e sospira. Gim fuma. Lilin dorme nel corridoio. Armanda si gira. Gim spegne
nel posacenere. Bussano alla porta.
Con una mano Gim già tocca la rivoltella nella tasca della giacca, con
l’altra ha preso Armanda per un gomito, che stia attenta. Il braccio
d’Armanda è grasso e morbido; stanno un po’ fermi così.
–
Chiedi chi è, Lilin, – fa Armanda, piano.
Lilin sbuffa dal corridoio. – Chi c’è? – fa, con malgarbo.
– Eh, Armanda, sono io, Angelo.
–
Chi Angelo? – fa lei.
–
Angelo il maresciallo, Armanda, passavo di qui, ho pensato di salire… Puoi
aprire un minuto?
Gim è già uscito dal letto e fa segno di star zitti. Apre una
porta, guarda nella toilette, prende la sedia coi suoi vestiti e la porta di
là.
–
Nessuno m’ha visto. Sbrigalo presto, – dice piano e si chiude nella
toilette.
–
Vieni, Lilin bello, rimettiti a letto, alè, Lilin – Armanda da
coricata dirige gli spostamenti.
–
Allora, Armanda, mi vuoi far aspettare, – dice l’altro dalla porta.
Con calma Lilin raccatta coperta, guanciale, tabacco, fiammiferi, cartine,
posacenere, torna a letto, si mette sotto e tira il lenzuolo sugli occhi. Armanda
si attacca al tirante e apre la porta.
Entrò Soddu, con la sua aria gualcita di vecchio agente in borghese,
i baffetti grigi sulla faccia grassa.
–
Vai a spasso fino a tardi, maresciallo, – disse Armanda
–
Oh, facevo un giro così, – dice Soddu, – e m’è venuto
di farti visita.
– Cosa volevi?
Soddu stava a capo del letto, s’asciugava il viso sudato nel fazzoletto.
–
Niente, una visitina così. Novità?
–
Novità cosa?
–
Per caso non avresti visto l’Albanesi?
–
Gim? Cos’ha combinato?
–
Niente. Ragazzi… Gli volevamo chiedere una cosa. L’hai visto?
– Tre giorni fa.
– No. Adesso.
–
È due ore che dormo, maresciallo. Ma perché vieni da me? Và dalle
sue: la Rosy, la Nilde, Lola…
–
È inutile: quando combina un guaio gira a largo.
–
Qua non è stato. Sarà per un’altra volta, maresciallo.
–
E bè, Armanda, chiedevo, vuol dire che son contento d’averti fatto
una visita.
– Buona notte, maresciallo.
– Buona notte, eh.
Soddu si voltò ma non se n’andava.
–
Dicevo, ormai è mattina e non faccio altri giri. Tornare a mettermi
in quella branda, non ne ho cuore. Visto che ci sono, quasi avrei voglia di
fermarmi, eh, Armanda?
–
Maresciallo, sei sempre così bravo, ma a quest’ora a dir la verità ho
finito di ricevere, è questo il fatto, maresciallo, ognuno ci ha il
suo orario.
–
Armanda, un amico come me –. Soddu già si toglieva la giacca,
la maglietta.
– Tu sei bravo, maresciallo; ci vedessimo domani sera?
–
Soddu continuava a spogliarsi: – È per far venir mattina, capisci,
Armanda. Allora: mi fai posto.
–
Vuol dire che Lilin andrà sul sofà; su, Lilin, dài, Lilin
bello, và via.
Lilin mosse le lunghe mani in aria, cercò il tabacco sul tavolino, si
tirò su mugolando, uscì dal letto senza quasi aprire gli occhi,
prese il guanciale, la coperta, le cartine, i fiammiferi, – Vai Lilin
bello, – andò via trascinando la coperta per il corridoio.
Soddu si rigirava tra le lenzuola.
Di là Gim guardava dai vetri del finestrino il cielo diventare verde.
Aveva dimenticato le sigarette sul comodino, questo era il guaio. E adesso
quell’altro si metteva a letto e lui doveva restar rinchiuso fino a giorno
tra quel bidè e quelle scatole di borotalco senza poter fumare.
…
Soddu coricato aveva sentito rumore di là. Posò una mano su Armanda. – Che
c’è? – lei gli si voltò addosso, gli girò un
suo braccio grande e molle intorno al capo: – Niente… Che vuoi
che sia… – Soddu non voleva liberarsi, pure sentiva muovere di
là e chiedeva come giocando: – … Che c’è, eh?… eh,
che c’è?
Gim aprì la porta. – Andiamo, maresciallo, non far lo scemo arrestami.
Soddu allungò la mano alla rivoltella nella giacca appesa, ma senza
scostarsi da Armanda. – Chi va là?
– Gim Bolero.
– Alto le mani.
– Son disarmato, maresciallo, non far lo scemo. Mi costituisco.
Era in piedi a capo del letto, con la giacca sulle spalle e le mani alte a
mezz’aria.
–
O Gim, – fece l’Armanda.
–
Tra qualche giorno ripasso a trovarti, Anda, – fece Gim.
Soddu s’alzava lamentandosi, s’infilava i calzoni. – Maledetto
servizio… Non puoi stare mai in pace…
Gim prese le sigarette dal comodino, accese, mise il pacchetto in tasca.
–
Fammi fumare, Gim, – disse Armanda, e si protese alzando il molle petto.
Gim le mise una sigaretta in bocca, le accese, aiutò Soddu a mettersi
la giacca. – Andiamo, marescià.
–
Vuol dire che sarà per un’altra volta, Armanda, – fece Soddu.
–
Arrivederci, Angelo – lei disse
–
Arrivederci, neh, Armanda, – disse ancora Soddu.
– Ciao Gim.
Andarono. Nel corridoio Lilin dormiva abbarbicato al ciglio dello sfiancato
sofà; non si mosse neanche.
Armanda fumava seduta nel gran letto; spense l’abat-jour perché una
luce grigia entrava già nella camera.
–
Lilin, – chiamò. Vieni, Lilin, vieni a letto, su, Lilin bello,
vieni.
Lilin già raccoglieva il guanciale, il posacenere.