Non c’è un grado zero dello sguardo (né quindi l’immagine è allo stato bruto). Non c’è uno stato documentario puro sul quale verrebbe a innestarsi in un secondo tempo una lettura simbolizzante. Ogni documento visivo è immediatamente finzione. (1)
Régis Debray descrive il processo di mistificazione che riguarda l’effetto di realtà delle immagini che rappresentano il reale; in particolare, egli afferma che queste immagini si aboliscono in quanto rappresentate, interpretate, composte, diventando acriticamente “vere”, senza dubbio false.
Perché c’è un soggetto dietro l’obbiettivo, c’è tutto un gioco di esibizione e di seduzione tra tutte le immagini prese in considerazione fra mille altre possibili e mostrate al loro posto, un gioco complicato di fantasie, di interessi e talvolta di rischi. (2)
Senza
essere messe esplicitamente in discussione rispetto alla loro presunta obiettività,
le immagini fotografiche e video che documentano la realtà si sostituiscono
ad essa. Questo processo di mistificazione ha origine nel paradosso che
riguarda queste immagini: nascono da un dialogo con la realtà, dall’apertura
a qualcos’altro rispetto a se stesse per diventare autoreferenziali,
più si sostituiscono alla realtà che rappresentano più
si allontanano dalla loro origine.
In questo modo, si confonde l’esperienza del reale con quella nel
“reale” registrato (3) dalle immagini. Ciò comporta che
quest’ultima possa affrancarsi dalla prima trasformando la realtà
nella fiction che ogni documento visivo rappresenta.
La scoperta che molte delle immagini canoniche della prima fotografia di guerra siano frutto di una messa in scena, o che i loro soggetti siano stati rimaneggiati, non deve sorprenderci. (4)
De
La valle dell’ombra della morte di Fenton, realizzata nel 1855 durante
la Guerra di Crimea, furono impressionate due lastre: nella prima egli riprese
l’immagine così come essa si presentava ai suoi occhi; nella
seconda, l’unica pubblicata, egli decise di disporre le palle di cannone,
componendo fin nei minimi dettagli la scena. Nella fotografia di guerra,
questa pratica di ricomposizione è assai diffusa anche se rappresenta
solo l’aspetto più macroscopico del processo di dell’immagine
e, quindi della fiction. E’ noto che Roger Fenton fu inviato in Crimea
dal governo inglese per fornire al pubblico, preoccupato dai resoconti scritti,
un’immagine edulcorata di un conflitto estremamente cruento. Le fotografie
di Fenton sono il risultato della censura preventiva di un potere che si
preoccupa di non mostrare le battaglie, i morti, i feriti e tutto ciò
che potrebbe spaventare il pubblico. Questo rappresentare per sottrazione
è indubbiamente una modalità di messa in scena più
invasiva della ricostruzione fisica dello spazio rappresentato.
Un ufficiale inglese della Guerra di Crimea scrisse in una lettera ai familiari
di essere sconvolto dalle immagini pacificate apparse sui giornali inglesi,
che non corrispondevano in nessun modo alla violenza da lui vissuta direttamente.
In modo più ambiguo rispetto ad altre foto, La valle dell’ombra
della morte riflette il gusto di Fenton per queste immagini politicamente
corrette e pittoresche che evocano piuttosto che documentare.
In quest’immagine il titolo insieme ad alcuni elementi simbolici (le
palle di cannone, la desolazione dello spazio vuoto, una strada di cui non
scorgiamo i limiti) creano un’atmosfera luttuosa nonostante l’assenza
di riferimenti diretti alla morte.
The documentary character of photography lay in its supposed truthfulness based on the technology used, not in the scenes represented. The medium had not yet achieved such a decisive change in perception as to anable the photographer or the viewer to break from a time-honored pictorial aesthetich. (5)
L’
effetto di realtà della fotografia riguarda innanzitutto la sua aderenza
formale a ciò che rappresenta, il suo contenuto può essere
manipolato e selezionato senza inficiare il suo supposto valore di verità
documentaria fondato sulla tecnica.
Le fotografie di Fenton costituiscono ancora oggi l’immagine ufficiale
della Guerra di Crimea anche se lasciano fuori campo le atrocità
emblematiche di questo conflitto.
In seguito, Felice Beato, durante la stessa guerra, ma anche in altre guerre
coloniali, ed Alexander Gardner durante la Guerra civile americana, realizzarono
diverse fotografie scegliendo di mostrare i cadaveri dei soldati.
Felice Beato, fotografa in maniera esplicita le stragi compiute dai soldati
inglesi sulle truppe locali in India: questa immagine ci mostra i ruderi
del palazzo Sikandarbagh a Lucknow. Quattro soldati che guardano verso l'obiettivo:
uno appoggiato ad una colonna, uno a cavallo ed altri due accovacciati per
terra; in primo piano, anche se a malapena riusciamo a distinguerle dalle
macerie, giacciono delle ossa umane. Le ossa umane sono state accuratamente
disposte all'interno del cortile del palazzo, gli abitanti del luogo sono
stati posti di fronte all'obiettivo per realizzare un'immagine nella quale
l'orrore della guerra viene ricomposto esteticamente.
Il 21 agosto del 1860 a Tientsin in Cina, durante la II Guerra dell'Oppio,
subito dopo la sanguinosa battaglia di Fort Taku, lo stesso Beato scattò
diverse foto il cui carattere estetico emerge anche dal racconto di un testimone
oculare. Egli descrive come il fotografo fosse eccitato alla scena di un
gruppo di cadaveri che gli si presentò di fronte: i soldati distesi
intorno ad una pistola, formavano una composizione che per lo sguardo di
Beato era innanzitutto "bella", questa volta nessuno avrebbe dovuto
spostare nulla. The capture of Fort Taku è un'altra immagine di Beato
scattata dopo la stessa battaglia: cadaveri e scale tra i ruderi del forte.
La cura compositiva è evidente nella scelta della posizione centrale
della scala appoggiata sulla rampa che evoca il passaggio da una dimensione
ad un'altra; il gruppo di due scale più una in alto a sinistra è
bilanciato con l'altro gruppo di due corpi più uno in basso a destra.
L’immagine definisce un percorso di ascesi sottolineato dalla posizione
delle tre scale in alto a sinistra che si stagliano verticali verso il cielo.
La morte, esplicitamente mostrata, in realtà ha bisogno, per essere
rappresentata, di rinviare a qualcosa che sta oltre l'immagine che la contiene.
Nelle immagini di Timothy O'Sullivan e Alexander Gardner per lo studio Brady,
la cura compositiva sembra riguardare necessità estetiche piuttosto
che simboliche, definendo una trascendenza che rimanda all'immagine stessa.
Ad Antietam nel 1862 Alexander Gardner scatta un'immagine nella quale i
corpi dei soldati sono accuratamente disposti su un pendio di una collina.
Le linee geometriche che definiscono la struttura dell'immagine creano un
dinamismo prospettico fortemente estetizzante, sottolineato dalla posizione
del primo corpo perpendicolare rispetto a tutti gli altri e che costituisce
l'indice di un percorso visivo fortemente orientato dal gusto.
Sempre su un pendio, O'Sullivan ambienta The Battelfield of Gettysburg,
anche qui ritroviamo dei cadaveri la cui disposizione è filtrata
da un "effetto artistico". In che modo questo si relaziona col
realismo a cui Brady fa appello nella mostra The Dead of Antietam che presenta
questa ed altre foto di costruite in questo modo? e Il New York Times scrive
su questa mostra:
I vivi che affollano Broadway forse si curano poco dei morti di Antietam, ma noi pensiamo che si farebbero largo in modo meno spensierato lungo la grande arteria, e se ne andrebbero a zonzo meno sereni, se sul marciapiede fossero deposti dei corpi sanguinolenti, appena trasportati dal campo di battaglia. Le gonne verrebbero leggermente sollevate e si farebbe attenzione a dove si mettono i piedi.(...)Queste immagini sono di una nettezza impressionante. Con l'ausilio di una lente d'ingrandimento, è possibile distinguere persino i lineamenti dei soldati trucidati. Non vorremmo certo trovarci nella galleria quando una delle donne china ad osservarle dovesse riconoscere il marito, il figlio o il fratello tra questi corpi immobili e privi di vita, pronti per le fosse che si spalancano per loro. (6)
Molti
decenni più tardi Don Mc Cullin, scatta una foto al corpo di un soldato
del Vietnam del nord, accanto a ciò che rimane dei suoi effetti personali.
Due occhi guardano dal centro dell’immagine, due occhi che provengono
da una fotografia nella fotografia. E sfondando due volte quella sottile
linea che separa la vita autonoma dell’immagine da quella di coloro
che la stanno guardando, questi occhi domandano ciò che quelli semi
chiusi della figura distesa al suo fianco non possono più domandare.
Sull’indistinto del volto del soldato ucciso, risalta nettamente la
lucentezza agghiacciante del metallo delle pallottole sparse fra gli sterpi,
di cui due disegnano un cono che riporta nuovamente a quegli occhi.
Sull’indistinto della veste del soldato, risalta la sua mano protesa
verso la fotografia. La luce non la illumina direttamente, ma lascia che
l’ombra, insieme alla terra ne risalti i segni, le piegature del pollice,
lo spessore ed il sollevarsi del pugno chiuso.
Ma ciò che più di ogni altra cosa colpisce è la compostezza,
l’equilibrio di ogni elemento dell’immagine. Ciò che
lascia sgomenti è che, più che il pensiero che l’autore
possa aver ordinatamente disposto non solo il corpo del soldato, ma anche
ogni oggetto che portava con sé, che un’immagine di morte possa
essere costruita per sedurre oltre che per documentare.
Come il soldato portava con sé delle lettere, ma soprattutto immagini
per ricordare, gli occhi da quella fotografia nella fotografia ci consegnano
un’ulteriore immagine per la nostra memoria. L’oscenità
del dolore collettivo della guerra diventa necessità di memoria individuale
che ad essa si oppone.
Nel giugno del 2003 a Bagdad, Bruno Stevens fotografa l'armata americana
che pattuglia di notte il quartiere Thawra. La foto mostra due iracheni
per strada ed il riflesso del volto di un soldato americano sullo specchietto
retrovisore del suo automezzo. L'inquadratura leggermente inclinata che
taglia l'uomo e la macchina sulla sinistra, la messa a fuoco imperfetta,
gli elementi di vita quotidiana che si sovrappongono nello sfondo potrebbero
far pensare ad un'istantanea.
Tuttavia lo sguardo in macchina dei due iracheni, l'allineamento dei volti
dei protagonisti della scena, la scritta "Just do it" che indirizza
il nostro sguardo verso l'immagine riflessa e perfettamente incorniciata
dell'indifferente soldato americano, sono elementi evidentemente controllati,
accuratamente disposti dal fotografo nell'inquadratura. Il leggero controluce
della fotografia contribuisce insieme alla composizione degli elementi a
creare un'atmosfera non solo descrittiva che si apre a diverse interpretazioni.
The historical event, unlike the horrors surrounding it, is stylized into a picturesque composition. The eye of the photographer is thus able to document violence and, into the same time, hide the reality of war behind the cloak of pictorial composition - "artistic effect". (7)
L'"effetto
artistico" e la stilizzazione tipica della composizione pittorica sublimano
il carattere documentario di queste fotografie che progressivamente restringono
il campo della rappresentazione sull'individuale, sull'emozione intima e
spontanea, senza perdere il contatto dai fattori collettivi che caratterizzano
queste immagini. I documenti, sottoposti a processi di estetizzazione che
li trascendono, si relazionano in modi progressivamente diversi alla realtà
ed è chiaro che la guerra del Vietnam fotografata nello stile di
Fenton sarebbe la testimonianza di un'altra guerra.
Il "criterio più alto di correttezza giornalistica" al
quale Susan Sontag fa riferimento riguardo al tipo di fotografia che sono
state scattate durante questa guerra è forse riconducibile al fatto
che progressivamente il campo visivo si avvicina al soggetto: dalle prime
fotografie dove il paesaggio diventava spazio scenografico, si giunge a
quelle più recenti dove i dettagli dell’orrore occupano, in
molti casi, la totalità dell’inquadratura. L'esibizione sempre
più ravvicinata dei cadaveri non sostituisce completamente, d'altra
parte, il fattore estetizzante e l'avvicinamento, paradossalmente, non coincide
con un protendere verso l'individuo particolare; esso sembra piuttosto indicare
un tipo di visione che smembra ulteriormente i corpi esponendoli come merce
o come feticci. Il trascendere verso qualcos'altro rimanda, in questo caso,
all’immagine stessa, oltrepassata la linea di separazione fra oggetto
e soggetto, sembra che essi coincidano, annientando così la natura
relazionale di ogni rappresentazione.
Photography has often been criticized for exchanging resemblance for identicalness. In 1841, Rodolphe Töpffer was already complaining that the daguerreotype offered “the image of the visible instead of a sign of the invisible”. For the picture to be identical would mean that the object had no significance beyond itself. Identicalness, Töpffer said, is the indirect and therefore verifiable product of the daguerreotype process, whereas resemblance is the freely expressive sign of something other than the image. Truthfulness, then, is to be found not in the identical picture but in the picture which gives a resemblance. This traditional distinction shows the dilemma of photography, which was not permitted to depict, what it could depict, but was unable to depict what people demanded of it. Only the type of war photography which then still lay in the future would show that the “artistic effect” referred to by Fenton can be achieved equally well photographing by a battery of cannons or amountain of corpses, by powder-smoke or a camp. In photography, identicalness, resempblance, and truthfulness would, from now on, have relevance only as dirrerent interpretetions of representation; the distinction between false and true representation is applicable only where photography is perceived to be a medium of information. (8)
In una fotografia conservata dall’agenzia Corbis-Sygma, una truppa di soldati russi, volgendo le spalle all’obiettivo, si inginocchia di fronte ad un'icona raffigurante il Redentore tenuta in mano dal generale a cavallo. Questa fotografia coglie una funzione dell’immagine apparentemente inattuale nell’epoca della riproducibilità tecnica, in cui l’aura, la sacralità che avvolgeva l’idolo e la sua immagine sembra essersi definitivamente dissolta. Nell’icona l’uomo ha visto il ponte stesso fra la materia e lo spirito, essa si è fatta immagine e presenza dell’invisibile poichè, al di là della rappresentazione l’icona è stata riconosciuta, non senza alimentare conflitti, come luogo di presenza, dell’essenza stessa. L’immagine diventa luogo di passaggio fra le due realtà, il luogo stesso della propagazione dello spirito.
Perché la persona di Cristo è l’emblema di ogni rappresentazione? Per il fatto che egli è due: Uomo-Dio. Verbo e Carne. (9)
E’
evidente che la condizione dei soldati inginocchiati di fronte all’immagine
sacra, sia diversa rispetto a quella dell’osservatore che criticamente
li può guardare nella foto. Si coglie un forte distacco nei confronti
della situazione rappresentata; lo spazio vuoto che si frappone fra il fotografo
e la truppa sancisce questa distanza.
Trascorso il tempo dei veggenti, attraversiamo quello del Voyeur.
Il 13 novembre 2001 il New York Times pubblica le tre fotografie realizzate
da Tyler Hicks vicino a Kabul, qualcosa di simile a uno snuff movie costituito
da foto. Il triste destino di un soldato talebano è raffigurato da
tre scatti in sequenza, le tre fotografie potrebbero benissimo essere tre
frame di un video che si conclude con la morte di quest‘ultimo. Nella
prima immagine, ironicamente, non possiamo capire chiaramente se il soldato
sia sostenuto o spinto dagli altri che lo circondano; il volto del soldato
rimane sempre impassibile nella seconda fotografia, ma il punto di vista
di Hicks ed il modo in cui viene tirata la camicia dell’uomo fanno
presagire quello che la terza immagine ci rivela nella sua oscenità.
Il momento è proprio quello dell’uccisione e l’obiettivo
del fotografo non si opacizza di alcuna pietà, il grandangolo sembra
voglia mostrare più ancora di quanto il corpo inerme possa già
lasciarci intendere: le braccia allargate, il viso rivolto all’indietro
verso coloro che lo stanno uccidendo, dalla parte opposta rispetto al fotografo,
le nude gambe ricoperte di sangue, i piedi avvolti in pesanti stracci a
sottolineare l’impossibilità di fuga. Vedere le cose-che-stanno-accadendo
ci dà la sensazione di leggere il mondo come un libro aperto. La
coincidenza del fatto e della sua immagine induce a rendere la carta per
il territorio, l‘inerenza del vero all‘oggetto identifica l‘immagine
con ciò che essa rappresenta che perde qualsiasi trascendenza, esaurendosi
in se stessa. Sarebbe questa l’allucinazione-limite di quella che
Debray definisce come era visiva: confondere vedere e sapere.
La fotografia d’arte demoltiplica l’opera unica, ma la buona istantanea del fotoreporter è a sua volta unica. Se ha disincantato l’immagine manuale, l’apparecchio fotografico ha reincarnato l’evento tramite il “documento sensazionale”. Il meraviglioso, macchinico è lo scoop: non più il non-visto bensì il “mai visto”, l’istante che non si rivedrà due volte. (10)
Ma a fotografie come quella di Hicks, probabilmente, ci si può assuefare per la continua riproposizione da parte dei media di immagini che non riescono a superare l’oscenità del loro contenuto, fino al limite paradossale del loro trasformarsi in immagini “già viste”. Queste costituiscono oggi la fonte dei nostri discorsi sulla realtà della guerra, questa quantità di parole è resa necessaria per sopperire alla mancanza simbolica e alla loro intercambiabilità: cessato il mutismo dell’immagine si moltiplicano i discorsi della comunicazione, “the less you have to see, the more you have to say”.
Dall'idolo all'idolo, sarebbe allora questa la carriera dell'immagine in Occidente, avendo l'"arte" fatto da intermezzo tra due idolatrie. La prima, per eccesso di trascendenza; la seconda, la nostra, per difetto. In regime di idolo, l'immagine, declinazione del prototipo divino aveva troppo di "on": era come schiacciata dal sacro che incombeva su di essa o la attraversava. In regime di visivo, di "off", l'immagine non ne ha più a sufficienza: essa procede alla propria consacrazione. (11)
Sacra
è l'immagine che rimanda a qualcosa che non è se stessa, qualcosa
che sta al di là di ciò che i nostri occhi semplicemente possono
"vedere", o sopportare di vedere, sacra é quindi quell'immagine
che supera la stessa sfera del visibile per protendersi verso la dimensione
dell'invisibile, poiché lo sguardo non sta semplicemente nella retina.
La desacralizzazione dell'immagine, il fatto sovrapposto all'immagine la
priva della sua insita parte di segretezza: scopre un velo sotto al quale
non rimane neppure il vuoto della morte come alterità.
Il visibile si sostituisce allo stesso fatto, esso diventa l'evento, l'attualità;
ci si allontana progressivamente dall'invisibile, ciò che non si
dà a vedere. Si arriva al punto di poter confondere il non mostrato
con l'assenza stessa. Dall'immagine, che necessita in quanto tale di un'alterità
a cui alludere, si passa così al puro visivo: esibendo l'oscenità
della morte se ne annulla la trascendenza.
L'immagine nasce nella morte, proprio di questo essa si nutre sin dalla
sua infanzia, incarnandosi in forme differenti, lo si legge nella parola
stessa ed in tutte quelle ad essa legate. Immagine deriva da imago: la maschera
funeraria, tratta dal calco in cera che veniva fatto ai cadaveri, custodita
inizialmente dal magistrato che la conservava durante la cerimonia funebre
e la teneva poi in casa. Essa veniva in seguito affidata ad amici e parenti
o addirittura acquistata dagli ammiratori del defunto (Goethe possedeva
quella di Schiller, Liszt quella di Beethoven e Gide quella di Leopardi).
Simulacrum è prima di tutto spettro, Figura è fantasma come
anche la parola Idolo deriva da Eidolon, il fantasma dei morti, anch'esso
spettro.
Rovesciando però le parti, come Bachelard affermava ne "La terre
et les rêveries du repos"
la morte è prima di tutto immagine e resta immagine (12)
G. Agamben, Il Giorno del Giudizio, nottetempo, Roma, 2004
R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia., Einaudi, Torino, 2033
W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità
tecnica. Arte e società di massa, Einaudi, Milano, 1991
R. Debray, Vita e morte dell’immagine. Una storia dello sguardo in occidente,
Il Castoro, Milano 1999
G. Deleuze, Un portrait de Foucault in Pour parler, Minuit, Paris, 1990
P. Esposito, La guerra senza testimoni nel trimestrale Latino America e tutti
i sud del mondo, n 75, Febbraio 2001
P. Esposito, F. Ramondino, Necessita dei volti in Alias, n.28, supplemento
al Manifesto, 10 luglio 2004
M. Frizot, The new history of photography, Könemann, Köln, 1998
M. Foucault, Difendere la società, lezione undicesima, 17 marzo 1976
S. Sontag, Davanti al dolore degli altri, Mondadori, Milano, 2003
S. Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società,
Einaudi, Torino, 1978
http//:www.systemofadown.it, Lorenzo Pinfari, Genociodio Armeno
Riferimenti fotografici
I siti sono stati consultati tra il 15 Giugno ed il 19 Luglio 2004
001_La valle dell’ombra della morte di Roger Fenton
su www.mat.upm.es/~jcm/ infima/fenton.html
002_Interno della "Secundra Bagh" dopo il
massacro, Palazzo Sikandarbagh a Lucknow India Felice Beato, 1857 su http://www.getty.edu/art/collections/images/m/10548001.jpg
003_The capture of Fort Taku, Tientsin in Cina, di Felice
Beato, 1860 su http://www.geh.org/taschen/htmlsrc3/
004_Ad Antietam nel 1862 Alexander Gardner
su soe.csusb.edu/.../ Engprep/Amlit/realism1.html
005_ The Battelfield of Gettysburg, Pennsylvania Timothy
O'Sullivan 1863su
http://www.masters-of-photography.com/O/osullivan/osullivan_gettysburg_full.html
006_Il corpo di un soldato del Vietnam del Nord, Vietnam,
1968 di
Don Mc Cullin da, Don Mc Cullin, Contrasto, Roma, 2003, pag. 135
007_ L'armata americana che pattuglia di notte il quartiere
Thawra, Bagdad, 2003 di Bruno Stevens da, Bagdad: Au-delà du miroir,
Ludion, Amsterdam, 2004, pag. 236/37
008_Lo zar Nicola II benedice le truppe russe in partenza
per il fronte durante la guerra russo-giapponese, agenzia L’illustration/Corbis
Sygma 1904-05 da Century, Phaidon, New York, 2002, pag. 52/53
009_Presa di un soldato talebano, Kabul, 13 novembre
2001 di Tyler Hicks
su http://cfapp.rockymountainnews.com/slideshow/slideshow.cfm?type=DEFAULT&ID=1113kabul&NUM=4
010_Ritratto di Lewis Payne, 1865, Alexander Gardner
fotografa in R. Barthes La camera chiara: Nota sulla fotografia, Einaudi,
Torino, 2003
011_The killing fields, 1975-1979, Nhem Ein su http://www.theconnection.org/photogallery/underexposed/default.asp?counter=12
012_ Lynching of Thomas Shipp and Abram Smith, 1930
su http://www.americanlynching.com/pic6.htm
013_German civilians made to face their nation's crimes,
Buchenwald, 1945, Margaret Bourke-White
su http://www.masters-of-photography.com/B/bourke-white/b-w_crimes.html
014_Tre vittime del genocidio armeno,1915 collezione
Hulton Getty
da Century, cit., pag. 165
015_ Nguyen Ngoc Loan, Vietnam, 1968 di Adams su
http://www.salpiconpress.com/salpicon/graffiti/nguyengoc.html
016_Una donna fa la spesa in un centro commerciale di
Doha, Qatar, 2004 di Grazia Neri in Internazionale n 533, 2 Aprile, 2004,
pag.35
017_Decapitazione di Nick Berg, Iraq, 11 Maggio 2004
http://www.strategiaglobale.com/nick_berg_decapitazione_sgozzamento.html
018_Necessità dei volti, fronte Polisario, 1999
a cura di Patrizio Esposito e Mario Martone
(1) R.
Debray, Vita e morte dell’immagine. Una storia dello sguardo in occidente,
Il Castoro, Milano 1999
(2) ibid., pag. 285
(3) ibid.
(4) S. Sontag, Davanti al dolore degli altri, Mondadori, Milano, 2003, pag.
46
(5) H. Von Amelunxen, The century’s memorial. Photography and th erecording
of history.
in M. Frizot, The new history of photography, Könemann, Köln, 1998,
pag.137
(6) S. Sontag, Davanti al dolore degli altri, cit., pag. 54
(7) H. Von Amelunxen, The century’s memorial, cit., pag.141
(8) H. Von Amelunxen, The century’s memorial, cit., pag.139
(9) R. Debray, Vita e morte dell’immagine., cit., pag.70
(10) ibid., pag 222
(11) ibid.,
pag.246-247
(12) ibid.
L'invisibile si
può rivelare così nella maschera che lo rappresenta, ciò
che ci sfugge si può cogliere, per esempio, nell'istante di arresto
catturato dallo scatto fotografico. Regis Debray arriverà a definire
la storia dello sguardo, in Occidente, come appendice di quella della morte.
Come l’immagine pittorica, così pure anche quella fotografica
si confronta con la morte molto presto.
Roland Barthes, individuando nella fotografia tre differenti pratiche: fare,
subire e guardare; definisce Operator il fotografo, Spectator colui che subisce
la fotografia e nomina il referente Spectrum. L’oggetto fotografato
è ciò che è in grado di richiamare il fantasma, ciò
che evoca “il ritorno dei morti”.
Estendendo a qualsiasi immagine fotografica questo concetto, Barthes giunge
ad affermare che la morte sia l’intenzione della fotografia; trasformarsi
in sola immagine, raggiungere quella condizione dove la distanza fra oggetto
e soggetto si assottiglia sempre di più senza mai però annullarsi,
esporre l’immobilità di un viso, sono la morte stessa.
Vi è comunque una profonda differenza nell’interpretare l’immagine
come un’affannosa ricerca di ridare vita a ciò che è morto
(emblematico il caso dell’abbellimento delle maschere funerarie) ed,
invece, la ricerca dell’immagine come morte in quanto tale.
Secondo Barthes,
Nella fotografia, la presenza della cosa non è mai metaforica e , per ciò che concerne gli esseri animati, non lo è neppure la sua vita, a patto di non fotografare dei cadaveri; e inoltre: se la fotografia diventa in tal caso orribile, è perché certifica, se così si può dire, che il cadavere è vivo in quanto cadavere: è l’immagine viva di una cosa morta. (13)
Nel 1865, Alexander Gardner fotografa Lewis Payne, colui che tentò di assassinare il segretario di Stato americano W. H. Seward. L’immagine è colta prima dell’esecuzione della condanna a morte di Lewis, nel momento dell’attesa. Guardando questa immagine, non riusciamo a disgiungere ciò che è il “sarà” dall’ “è stato”, una strana sospensione si crea, sospensione tra ciò che la fotografia ci mostra e la consapevolezza che, nel tempo della nostra visione, Payne sia già morto.
Infatti, bisogna pure che in una società la Morte abbia una sua collocazione; essa non é più (o é meno) nella sfera della religione, allora deve essere altrove: forse nell'immagine che produce la Morte volendo conservare la vita. Contemporanea della regressione dei riti, la Fotografia potrebbe forse corrispondere all'irruzione, nella nostra società moderna, di una Morte asimbolica, al di fuori della religione, al di fuori del rituale: una specie di repentino tuffo nella Morte letterale. (14)
Tra il 1975 ed il 1979, in una prigione segreta nell'ex liceo di Tuol Sleng nella periferia di Phnom Penh, Nhem Ein scattò seimila fotografie ai cambogiani (più di quattordicimila) prima che fossero giustiziati con l’accusa di essere "intellettuali" o "controrivoluzionari". Queste fotografie costituiscono ancora oggi un catalogo, The killig fields (Campi di sterminio): seimila scatti in cui altrettante persone con un cartellino che ne indica il numero, fissando l'obiettivo della macchina fotografica, stanno guardando la morte in diretta. Come nella fotografia di Lewis Payne anche qui il "questo è stato" rimane inscindibile dal "questo sarà", ma in questo caso l'archiviazione, i numeri segnati sul cartellino, cancellano i nomi degli individui, dei dati quantitativi si impongono sulle qualità irripetibili dei singoli volti.
Anche se la persona fotografata fosse oggi completamente dimenticata, anche se il suo nome fosse cancellato per sempre dalla memoria degli uomini, ebbene malgrado questo -anzi, precisamente per questo- quella persona, quel volto, esigono il loro nome, esigono di non essere dimenticate. (15)
Questo tipo di sguardo
"piatto", come Barthes lo definisce, sguardo privo di profondità,
è simile allo sguardo verso la Morte stessa, il rischio è però
qui di confondere due termini molto vicini, ma di significato profondamente
differente: la morte appunto con quello di mortalità. L'avanzare sempre
più imponente, nell'età paradossalmente definita dell'immagine,
di ciò che invece rimane fermo sulla superficie del visivo, corrisponde
alla ritirata del concetto stesso di morte, in favore di quello della mortalità.
Foucault interpreta questa progressiva esclusione della morte come la manifestazione
più concreta del potere "del controllo". Percorrendo le differenti
strategie politiche, dallo stato di sovranità, passando attraverso
quello della disciplina, o norma, per arrivare fino alla governamentalizzazione
dello Stato, Foucault giunge a definire quest'ultima come tecnologia del bio-potere,
"tecnologia del potere sulla popolazione e sull'uomo in quanto essere
vivente, un potere continuo, scientifico: il potere di far vivere. La sovranità
faceva morire e lasciava vivere. Ora appare invece un potere che definirei
un potere di regolazione, il quale consiste proprio nel far vivere e nel lasciar
morire." (16)
Il legame fra l'immagine ed il potere è probabilmente altrettanto remoto
quanto quello fra l'immagine e la morte, il governo si esercita attraverso
le insegne pubbliche del potere, le immagini. Ma se un tempo queste mantenevano
una funzione di tipo dimostrativo, ovvero si mantenevano strumentali alla
dichiarazione di un fatto, di un evento, oggi esse funzionano direttamente
come mostrative, esse costituiscono il fatto stesso.
Tra gli anni '90 del XIX secolo e gli anni '30 del XX, vennero scattate una
serie di fotografie che mostrano i linciaggi subiti dai neri in diverse città
degli Stati Uniti. Dalla costruzione di un archivio per la catalogazione di
un'esecuzione di massa, come avveniva nelle fotografie di Nhem Ein, si passa
qui alla realizzazione di immagini da utilizzare come souvenir o come cartoline.
Le fotografie ricordo erano scattate da fotografi occasionali in occasioni
assimilabili alle feste di paese. Nell'immagine del 7 agosto 1930, Lynching
of Thomas Shipp and Abram Smith scattata a Marion nell'Indiana si scorge un
gruppo di spettatori, alcuni consapevoli di essere fotografati, che assistono
allo spettacolo dell'impiccagione di due uomini precedentemente linciati.
L'orrore per i corpi appesi è messo in secondo piano dall'esibizionismo
con cui alcune persone del pubblico rivolgono gli sguardi alla macchina fotografica
ed, in particolare, dal fatto che uno spettatore indichi con l'indice uno
dei cadaveri. Ci troviamo di fronte ad un'istantanea dell'orrore, dove l'orgoglio
per avere ucciso e sbeffeggiato il nemico ci richiama alla mente le immagini
delle torture americane nel carcere di Abu Ghraib.
Il cortocircuito si crea nel momento in cui, nel 2000, 70 anni dopo essere
state realizzate, si sceglie di riesumare le fotografie dei linciaggi per
realizzare una mostra presso la New York Historical Society, Without Sanctuary:
Lynching Photography in America; ma anche quando, qualche mese fa, le istantanee
scattate "per gioco" dai marines ad Abu Ghraib sono apparse immediatamente
sui media di tutto il mondo. In questi due casi l'orrore, in differita o quasi
in diretta, diventa un indice che rimanda al razzismo, mettendo in discussione
il potere che di esso si alimenta.
Il razzismo assicura dunque la funzione della morte nell'economia del bio-potere, sulla base del principio che la morte degli altri equivale al rafforzamento biologico di se stessi in quanto membri di una razza o di una popolazione, in quanto elementi all'interno di una pluralità coerente e vivente. Come vedete, siamo qui in fondo molto lontani da un razzismo come semplice o tradizionale disprezzo o odio delle razze le une per le altre.
[...]
Il razzismo è dunque legato al funzionamento di uno stato che è obbligato a servirsi della razza, dell'eliminazione delle razze e della purificazione della razza per esercitare il suo potere sovrano del diritto di morte indica il funzionamento, l'instaurazione e l'attivazione del razzismo. Ed è qui, credo, che esso effettivamente si radica. A partire da tali premesse, diventa comprensibile come e perché gli stati più omicidi siano anche i più razzisti. (17)
Queste immagini oscene,
private, progressivamente anestetiche creano un cortocircuito nell'ambito
del visivo. Il mai visto dell'orrore, fine a se stesso, colpisce lo sguardo
per richiamare l'attenzione sui lati oscuri del potere che le immagini possono
rivelare in modo disarmante, grazie alla loro trascendenza verso la sfera
politica. L'orrore a cui le immagini attingono, spesso in modo totalmente
autoreferenziale, simula un'aderenza totale alla realtà rappresentata
che può portare all'anestetizzazione degli sguardi e delle coscienze
degli spettatori. Tuttavia esso può, allo stesso tempo, spingere questi
ultimi a forme di rifiuto che possono destabilizzare i rituali macabri che
il potere utilizza per affermare se stesso. Le modalità d'uso delle
immagini che descrivono gli orrori della guerra diventano fondamentali per
definire il valore di questi documenti visivi non solo sul piano politico,
ma anche su quello estetico poiché, per esempio, la loro sovraesposizione
o, al contrario, la loro censura condizionano la percezione che di essi hanno
gli spettatori. Lo shock dello scoop "mai visto" può alimentare
una fiction dell'orrore già vista oppure far luce su fatti altrimenti
cancellabili dalla memoria visiva dell'umanità. In un periodo in cui
la realtà sembra quasi perfettamente riflessa da alcune tecniche che
producono immagini, un uso elementare, quasi istintivo di queste tecniche
definisce i canoni di un nuovo realismo che si impossessa della storia intesa
come rappresentazione, nella misura in cui ogni suo documento è il
frutto di un’interpretazione.
Margaret Bourke-White fece parte di quel gruppo di fotografi che per primi,
nella primavera del 1945, testimoniarono gli orrori di Buchenwald. Qui, come
anche a Bergen-Belsen e Dachau, la fotografia si impose su qualsiasi altro
tipo di documentazione.
"No time to think about it or interpret it. Just rush to photograph it," she wrote. Of entering Buchenwald, the notorious Nazi concentration camp, she said, "Using a camera was almost a relief. It interposed a slight barrier between myself and the horror in front of me." Yet, 25 years later, when going over those photographs at her home, she wept. (18)
In una delle fotografie
scattate in quell'aprile a Buchenwald, una civile tedesca si copre il volto
con la mano sinistra, per non assistere al macabro spettacolo dei cadaveri:
il cumulo di corpi occupa la parte opposta incorniciando l'immagine, ai piedi
di questo cumulo un volto riverso sembra che guardi verso l'obiettivo, stranamente
sono gli unici occhi che ci guardano. Gli altri protagonisti sullo sfondo
della fotografia sembra che si astraggano dal contesto in cui si trovano:
fare finta di non vedere, questa è una delle tipiche reazioni alle
immagini shock.
Se per lo sterminio degli ebrei, le immagini hanno verificato l'Olocausto,
lo stesso non è avvenuto per il popolo armeno, dove i riflettori puntati
sugli avvenimenti della Grande Guerra hanno reso possibile che un genocidio
passasse inosservato.
Nel corso di una riunione segreta all'inizio del 1915 del Comitato di Unione
e Progesso, il segretario Nazin concluse testualmente i lavori
Siamo in Guerra, non potrebbe verificarsi un'occasione migliore per terminare tutta la popolazione armena. In un momento come questo è estremamente improbabile che vi siano interventi da parte delle grandi potenze e proteste da parte della stampa; e se anche ciò accadesse tutti si troverebbero di fronte al fatto compiuto. (19)
La legittimazione del
genocidio avviene solamente oggi ed è concomitante alla diffusione
di poche immagini che documentano quegli anni.
L'orrore dell'immagine appare il modo più eloquente di testimoniare
una realtà, comunque, ricostruita come in questa composizione di bambole
macabre. I tre cadaveri costruiscono quasi una croce schiacciata per terra.
I due corpi che ne costituiscono i bracci appaiono quasi irreali, l'oscenità
di quello al centro nella sua raccapricciante nudità rappresenta il
centro espressivo dell'immagine. Il fotografo ha scelto un punto di vista
molto ravvicinato, quasi a volerne descrivere clinicamente i dettagli; siamo
di fronte a una di quelle immagini il cui valore consiste nel mostrare ciò
che sta davanti all'obiettivo, una sorta di bottino del fotografo che semplicemente
scatta.
Di fronte a queste immagini, secondo molti, si dovrebbe restare privi di parole,
eppure è difficile non cominciare a porsi, proprio davanti ad esse,
alcune domande. Perché è sempre più attuale identificare
la guerra con immagini di cadaveri sempre più raccapriccianti e sempre
più in primo piano? Perché le immagini che mostrano l'orrore
sembrano più vere delle altre e in cosa consiste questa verità?
Perché di fronte a queste immagini la distanza con l'altrove della
guerra sembra ridursi fino a insinuare l'ambigua illusione di poterla toccare?
In che modo è possibile parlare di attrazione nei confronti di queste
immagini, non tanto e non solo da parte degli individui, ma da parte degli
organi che amministrano la realtà collettiva?
Nella fotogtrafia di Eddie Adams del febbraio del 1968 assistiamo al preciso
momento dell'uccisione di un prigioniero vietcong da parte del capo della
polizia sud vietnamita, il generale di brigata Nguyen Ngoc Loan.
Si tratta di una messa in scena, è stato lo stesso generale Loan a
condurre il sospetto vietcong di fronte ai fotografi e, messosi di profilo
rispetto all'obiettivo, il braccio che sbarra lo sguardo verso la strada spara.
Nel momento esatto in cui la pallottola colpisce la testa dell'uomo, un attimo
prima che questo cada, il fotografo scatta questa istantanea, stranamente
composta.
Questa è diventata una delle immagini che più rappresentano
la guerra in Vietnam, immagine la cui composizione è costruita e voluta
dall’assassino che la interpreta, in qualche modo è un’immagine
autocelebrativa che allo stesso tempo denuncia la violenza mostrata.
Il Vietnam è stata una guerra di immagini perchè si vedevano dei Vietnamiti e degli Americani, in piedi, di fronte, di schiena, non rappresentativi e non delegati, per così dire così come sono e in situ ( e non solamente l'effigie di Ho Chi Minh di fronte all'effigie Johnson o Nixon). Una guerra per reporter e fotografi - forse il loro canto del cigno. (20)
In una fotografia di Grazia Neri, realizzata in Qatar, una donna cammina spingendo un carrello in un centro commerciale vicino a Doha, dietro di lei una parete di schermi che trasmettono l'immagine apocalittica della caduta delle Twin Towers. Le fiamme che avvolgono le torri gemelle incombono sulla donna, che non sembra minimamente turbata, bensì assuefatta alle immagini dell'orrore che precipitando nello spettacolo diventano clichè. L'indifferenza sembra essere l'estrema deriva per delle immagini che si esauriscono nel documentare senza più riuscire a rappresentare, tradendo la propria natura, smettendo, nell'eccesso di comunicazione, di comunicare.
L'immagine è benefica perchè è simbolica. Cioè ricomponente ricostituente, per usare degli equivalenti. Ma per fare o per rifare corpo unico, in virtù del meccanismo logico dell'incompletezza, bisogna includere nel gioco un compagno nascosto. Chi costituisce un legame fa del bene, ma solo in riferimento ad un altrove, a un lontano, a un terzo simbolizzante, permette a un'immagine di stabilire una relazione con colui che la guarda, e, di rimbalzo, fra coloro che la guardano. (21)
L'11 Maggio 2004 sono
state pubblicate su Internet le immagini della decapitazione di Nick Berg,
un civile americano catturato da un gruppo di terroristi islamici. In queste
immagini raccapriccianti, piatte e didascaliche la violenza si scaglia contro
il nemico che diventa un feticcio da esibire nella sua più nuda vulnerabilità.
Questi immagini sono crudeli non perché cercano di combattere una guerra
necessaria e sempre più spietata che riguarda le immagini, ma per la
loro totale mancanza di pudore e di rispetto nei confronti del nemico, per
la loro incapacità di aprirsi a qualcosa di diverso dall’orrore
che si limitano a mostrare. Dopo che per un certo periodo è stato possibile
vedere integralmente il video su internet, l'oscuramento dei siti che lo pubblicavano
è diventata l'arma di risposta in Occidente: non vedere per difendersi.
Tra il 1976 ed il 1991, il popolo Sahrawi ha costruito un archivio come testimonianza
di una guerra combattuta, ma non riconosciuta (nemmeno come guerra al terrorismo)
dal Governo marocchino. Di questo archivio fanno parte anche le fotografie
che i soldati marocchini catturati o morti durante i combattimenti portavano
con sè: foto personali, dei soldati stessi, delle loro famiglie, per
la maggior parte volti, ritratti. Le immagini costituiscono per il popolo
Sahrawi una prova della guerra: ogni ritratto inscrive in sè il volto
invisibile ed allo stesso tempo la dimensione intima e personale del nemico;
un bottino di guerra estremamente prezioso, non solo per la sua valenza politica,
ma anche per quella estetica. Queste fotografie private, a volte anomale ma
pur sempre di genere, mettono in discussione la natura stessa dell’immagine
poiché riattivano la trascendenza sia sul piano dei contenuti che su
quello della forma. Queste immagini non sono autoreferenziali ma si relazionano,
oltre che alle storie e alle persone che mostrano, con la guerra che le ha
risignificate, ridefinite, trasformate anche da un punto di vista materico.
In queste fotografie, la guerra intima, privata, rivolta alla sopravvivenza
dei soldati marocchini e quella dei combattenti invisibili del Fronte Polisario
si intrecciano per fare riferimento a una guerra altrimenti cancellata dalla
storia. Nella loro ricollocazione simbolica, queste fotografie corrispondono
a un atto estremamente violento inferto dal vincitore sul vinto: rubare le
immagini che appartengono alla vita individuale del soldato nemico significa
spogliarlo di se stesso, del suo bisogno di sopravvivenza, della sua identità.
Tuttavia, oltre che il rifiuto di combattere il nemico attraverso l’esibizione
dell’orrore, l’azione estetica del Fronte Polisario rivatilizza
queste fotografie che possono così sopravvivere assumendo un valore
eversivo che si apre a nuovi contesti simbolici.
Come le immagini dei linciaggi in America costituirono nel 2000 la mostra
Without Sanctuary, a partire dal 1999, 483 delle 25.000 fotografie, custodite
nel Museo della guerra del Fronte Polisario, diventano parte del progetto
Necessità dei volti. Patrizio Esposito e Mario Martone chiedono la
custodia di queste immagini, come testimonianza di una guerra, per renderne
possibile la visione nell'ambito di incontri e conversazioni sul conflitto
in corso.
In tempi come i nostri in cui si assiste alla devastazione della guerra attraverso schermi domestici che nascondono non solo i volti dei familiari che soffrono, ma addirittura dei soldati che combattono e che muoiono, quella umile cassa si contrappone col suo contenuto di volti di uomini e donne anonimi e di storie nascoste, a questa barbarie tecnologica. (22)
La scelta di esposizione
e diffusione di queste fotografie segue modalità diametralmente opposte
rispetto a quelle riservate dai media alle immagini di guerra. Gli originali
possono essere visti solamente in occasione di incontri, spesso in abitazioni
private; sono state racchiuse in un catalogo stampato in 20 copie che verranno
affidate a persone selezionate che si impegneranno alla loro diffusione e
alla loro custodia.
Molte immagini mostrano i segni evidenti del trascorrere del tempo, consumate,
piegate, sbiadite, in questo senso non riproducibili tecnicamente almeno quanto
un’opera pittorica. Molte immagini sono sfocate, altre ritagliate, nonostante
questo costituiscono proprio nelle loro "mancanze" un indice; l'indicato
è ciò che manca, quello che si sottrae allo sguardo e rimane
invisibile. Ogni fotografia conserva un valore in sè, intimo e privato,
quasi inesplorabile, eppure lo stare insieme alle altre gli è indispensabile.
Oui, il y a des sujets: ce sont des grains dansants dans la poussière du visible, et des places mobiles dans murmure anonyme. Le sujet, c'est toujours une dérivée. (23)
A distanza di anni quel materiale conserva indenne le figure dei morti e degli scomparsi sorvegliandone il sonno, come é nel potere della fotografia. Di quegli uomini mantiene inalterate le incombenze quotidiane, le illusioni e le mancanze, gli amori e quanto altro compone la vita di tutti. (24)
Crediamo non sia improprio considerare Necessità dei volti un Atlante di immagini che mettono radicalmente in discussione l’iconografia attuale delle guerra.