05.29.2005

Monday Night — Venezia — Intorno

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lunedì sera –leggere, procedere: il lavoro, l’essere comune e lo spazio
dell’apparenza– part 2– 30.05.05
Tematica:
1. Su questo lunedì
About this Monday
2. Sulle tappe del procedere
Links:
http://www.16beavergroup.org/monday/
http://perso.wanadoo.fr/marxiens/politic/tiqqun.htm
http://www.disgiunzioni.it
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1. Su questo lunedì
Cosa: leggere, procedere: il lavoro, l’essere comune e lo spazio
dell’apparenza–
Quando: lunedì 30 maggio, h 19.00
Dove: da Piazza San Marco, sotto al Campanile, cercando di raggiungere il
ponte della Libertà
Chi: tutti sono invitati
Partendo da San Marco procederemo leggendo alcuni brani brani tratti da
diversi testi sul tema del lavoro, l’essere comune e dello spazio
dell’apparenza.
Questo evento è collegato all’incontro che è avvenuto ieri a New York.
Per maggiori informazioni:
http://www.16beavergroup.org/monday/
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1. About this Monday
What: read, proceed: work, the being in community and the space of
appereance–
When: Monday 30 May, 7 p.m.
Where: from Piazza San Marco, near to the Campanile, trying to reach the
bridge of Freedom
Who: all are invited
Starting from San Marco Square we’ll walk and read some excerpt from
different books on the topic of work, being in community and the space of
appereance.
This event is linked to another one that took place yesterday in New York.
For more information you can take a look at the website:
http://www.16beavergroup.org/monday/
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2. Sulle tappe del procedere
Prima tappa
14. Non c’è comunità se non nei rapporti singolari. Non c’è mai la
comunità, ma della comunità che circola.
Glossa a: la comunità non designa mai un insieme di corpi concepiti
indipendentemente dal loro mondo, ma una determinata natura dei rapporti
tra questi corpi, e di questi corpi con il loro mondo. La comunità, dal
momento in cui vuole incarnarsi in un soggetto isolabile, in una realtà
distinta, dacché vuole materializzare la separazione tra un fuori e un
dentro, si trova a confrontarsi con la propria impossibilità. Questo punto
di impossibilità è la comunione. La totale presenza a sé della comunità,
la comunione, coincide con la dissipazione di ogni comunità nei rapporti
singolari, con la sua assenza tangibile.
Glossa b: ogni corpo è in movimento. Anche se immobile, esso viene in
presenza, mette in gioco il mondo che lo porta, va verso il suo destino.
Parimenti certi corpi vanno insieme, tendono, inclinano l’uno verso
l’altro: c’è tra loro della comunità. Altri si evitano, non si compongono,
stridono. Nella comunità di ogni forma-di-vita rientrano anche delle
comunità di cose e di gesti, di abitudini e di affetti, una comunità di
pensieri. Non a caso i corpi privi di comunità sono per ciò stesso privi
di gusto: non vedono che certe cose vanno insieme e altre invece no.
15. La comunità non è mai la comunità di quelli che ci sono.
16. L’incontro con un corpo affetto dalla mia stessa forma-di-vita,
la comunità, mi mette in contatto con la mia propria potenza.
17. Il senso è l’elemento del Comune; ogni evento, in quanto
irruzione del senso, instaura un comune. Il corpo che dice “io” in verità
dice “noi”. Il gesto o l’enunciato dotati di senso ritagliano nella massa
dei corpi una comunità determinata, che bisogna anzitutto assumere per
poter assumere questo gesto, questo enunciato.
[tratto da Introduzione alla guerra civile, titolo originale Introduction
à la guerre civile, tratto dal secondo numero della rivista Tiqqun,
ottobre 2001
per leggere tutto il testo:
http://www.disgiunzioni.it/guerrecivile1.htm]
Seconda tappa
Sotto l’impero, dunque, il design e l’urbanistica inscrivono direttamente
nelle cose l’unità del mondo divenuta problematica. Essi sagomano il
“mondo sensibile” completamente nuovo. I mass media inventano a flusso
forzato il linguaggio comune del giorno. I differenti “mezzi di
comunicazione” mettono a disposizione, in ogni momento, l’insieme di ciò
che noi abbiamo sempre-ormai abbandonato, e che chiamiamo ancora,
assurdamente, “nostro prossimo”. La cultura, infine e lo spettacolo, ci
garantiscono l’esistenza di ciò che possiamo vivere e pensare, e che non
facciamo più che intravedere. E’ così che localmente, testa attraverso
testa, casa per casa, centro città per centro-città, si congegna la
metropoli imperiale, si ricostruisce un universo apparentemente stabile,
credibile, del consenso, una aisthesis: una percezione comune del mondo.
L’impero è questa fabbrica del sensibile planetaria. E proprio come la
religione pretendeva di unire gli uomini con il divino quando in realtà li
teneva separati, la religione sensibile dell’impero, che pretende di
ricostituire l’unità del mondo, dopo la sua base, dopo il locale, non fa
che fissare in ogni luogo ed in ogni essere una nuova separazione: la
separazione fra l’uso ed il dispositivo. L’estetica si impone allora su
scala globale come impossibilità di qualsiasi uso. L’opuscolo di una
esposizione recente a Bordeaux annunciava, facendo l’occhiolino: “Quello
che vi si vende al supermercato, gli artisti lo trasformano in opera
d’arte.” Si vede come solo l’estetica giunga ad adempiere
all’impossibilità d’uso contenuta in ogni merce, giunga a convertirla,
dietro ad una vetrina o nel cuore di un’ “installazione”, in un puro
valore di esposizione. In estremo, il programma estetico mira ad estendere
questa scissione all’uomo stesso, di incorporargli il dispositivo, di
renderlo l’utilizzatore di se stesso. Comprendiamo facilmente che la
disposizione biopolitica a temerci come corpi, o quella, spettacolare, di
specchiarsi come immagine, cospira a fare di noi gli utilizzatori di noi
stessi. A fare di noi dei soggetti estetici.
[tratto da Le bel enfer, Il bell’inferno]
Terza tappa
Il capitalismo come religione è il titolo di uno dei più penetranti
frammenti postumi di Benjamin. Secondo Benjamin, il capitalismo non
rappresenta soltanto, come in Weber, una secolarizzazione della fede
protestante, ma è esso stesso essenzialmente un fenomeno religioso, che si
sviluppa in modo parassitario a partire dal Cristianesimo. Come tale, come
religione della modernità, esso è definito da tre caratteri: 1. E’ una
religione cultuale, forse la più estrema e assoluta che sia mai esistita.
Tutto in essa ha significato solo in riferimento al compimento di un
culto, non rispetto a un dogma o a un’idea. 2. Questo culto è permanente,
è “la celebrazione di un culto sans trêve et sans merci”. Non è possibile
distinguere, qui, tra giorni di festa e giorni lavorativi, ma vi è un
unico, ininterrotto giorno di festa, in cui il lavoro coincide con la
celebrazione del culto. 3. Il culto capitalista non è diretto alla
redenzione o all’espiazione di una colpa, ma alla colpa stessa. “il
capitalismo è forse l’unico caso di un culto non espiante, ma
colpevolizzante…Una mostruosa coscienza colpevole che non conosce
redenzione si trasforma in culto, non per espiare in questo la sua colpa,
ma per renderla universale…e per catturare alla fine Dio stesso nella
colpa…Dio non è morto, ma è stato incorporato nel destino dell’uomo.”.
Proprio perché tende con tutte le sue forze non alla redenzione, ma alla
colpa, non alla speranza, ma alla disperazione, il capitalismo come
religione non mira alla trasformazione del mondo, ma alla sua distruzione.
[tratto da Elogio della profanazione, in G. Agamben, Profanazioni,
nottetempo, Roma, 2005]
Quarta tappa
Il solo carattere del mondo che permette di misurare la realtà è il suo
essere comune a tutti, e il senso comune occupa un posto così elevato
nella gerarchia delle qualità politiche perché è il solo che fa aderire
alla realtà complessiva delle cose i nostri cinque sensi strettamente
individuali e i dati strettamente particolari che essi percepiscono. E’
per merito del senso comune che le percezioni degli altri sensi sembrano
dischiudere la realtà, anziché essere semplicemente avvertite come
irritazioni dei nervi o sensazioni di resistenza del corpo. Una sensibile
diminuzione nel senso comune in una comunità e un sensibile aumento di
superstizione e credulità sono pertanto segni quasi infallibili di
alienazione dal mondo.
Questa alienazione –l’atrofia dello spazio dell’apparenza e l’inaridimento
del senso comune- è naturalemente più esasperata nel caso di una società
di lavoratori che nel caso di una società di produttori. (…)
[tratto da H. Arendt, Vita activa. La condizione umana., Bompiani, Milano,
I ed. 1958, X ed. 2003]